Un po’ di filosofia…Testo di Jacques Deschamps
22 Marzo 2019

Une expérience philosophique aux Monts d’Azur.

Vorrei raccontare un’esperienza vissuta durante un soggiorno nella riserva dei Monts d’Azur, in un incontro inedito per me con un certo mondo animale, e che ancora non spiego nel merito. Un incontro con una singolare presenza animale riferita paradossalmente, ma serenamente, all’assenza dell’uomo in sé, a qualcosa che fa sentire la mancanza di se stessi e in cui forse ha origine buona parte del malessere che caratterizza la condizione umana, e che avrebbe a che fare più ampiamente con quello che Freud ha diagnosticato come il “malessere nella civiltà”.

Non possiamo sapere cosa significhi “pensare” per un animale, per non parlare di metterlo in relazione con i modi di pensare umani, perché non sappiamo veramente cosa odora l’animale, come diceva Cartesio. Per l’essere umano, il pensiero corrisponde a un modo di esistenza che impegna tutto ciò che è, il pensiero partecipa all’essenza dell’uomo per parlare come la filosofia classica (siamo “sostanze pensanti”, ancora Cartesio). Ma per l’animale, il pensiero è forse solo una particolare modalità di azione, una modalità di relazione con l’ambiente segnata da una moltitudine di piccole deviazioni che modificano i suoi mondi percettivi, come spiega J. von Uexküll (Ambiente animale e umano), ponendo così nuovi problemi per esso. In questo senso, l’uomo e l’animale partecipano alla stessa genesi durante la quale lo psichico si sviluppa solo dal momento in cui le funzioni vitali non sono più sufficienti a risolvere i problemi posti ai viventi la cui energia è volta a garantire la conservazione e la riproduzione.

È possibile che gli animali pensino, o, per evitare un termine troppo irto di molteplici implicazioni, che possano trovarsi in situazioni psichiche che li portano a produrre atti di pensiero. Non ha quindi senso voler dimostrare a tutti i costi che gli animali “pensano” – nella filosofia classica, la questione viene sempre ripresa per mostrare, in definitiva, che esiste una differenza essenziale tra uomo e animale, vale a dire definire ciò che è umano nell’essere umano. La questione è quella dell’uomo ma mai quella della sua animalità, non si pone di quale animalità sia fatta l’umanità.

Non appena poniamo la questione del rapporto tra uomo e animale, i termini in cui interroghiamo coprono sempre nozioni morali e metafisiche. Ma se ci atteniamo alle scienze della vita e a ciò che la psicologia comportamentale ci insegna, per rappresentare ciò che sono la psiche e il pensiero, tutto ciò che possiamo assicurare è che nulla ci permette di escludere a priori l’ipotesi che qualsiasi essere, dal momento in cui è vivo, può accedere al pensiero e sviluppare un universo psichico complesso.

Non sai cosa può fare un corpo, ha detto Spinoza. E allo stesso modo, non possiamo anticipare ciò che un essere può fare non appena è vivo, ciò che può fare e con ciò che può entrare in relazione. In relazione all’anima umana, l’ipotesi metafisica (il termine qui comprende ciò che è classificato sotto le denominazioni del religioso e del mistico) di un’anima animale, e persino di un’anima vegetale, si riferisce all’idea di un’essenza comune. Non esiste una concezione differenziale dell’anima, ma è il corpo e le sue funzioni che possono essere dedotte dalle differenze tra i modi di vivere di un’anima a seconda che si incarni in un corpo umano, animale o vegetale. La questione non è quindi tanto ciò che distingue l’uomo dall’animale, quanto ciò che differenzia lo psichico e il vitale.

La filosofia inizia con l’atto socratico di fondare l’eminente dignità dell’uomo sulla “differenza antropologica”, distinguendo intelligenza e istinto e contrapponendo il principio vitale dell’uomo a quello degli esseri viventi (animali e piante). Socrate oppone l’intelligenza all’istinto, da Socrate l’istinto si giudica dall’intelligenza dirà Nietzsche. In questo abbassamento del corpo a beneficio dell’anima ha origine un umanesimo che si applica ancora a noi e per il quale l’uomo è una realtà assolutamente singolare che non è paragonabile a nessun altro in natura (phusis). Ma da questa differenza di natura tra l’istinto degli animali e l’intelligenza umana sorge soprattutto una conseguenza i cui effetti subiamo ancora perché si è radicata nelle profondità dei nostri modi di pensare: l’animale sarà ormai considerato attraverso l’uomo nella misura in cui la realtà umana diventerà il modello completo di tutte le forme dell’essere. Nel testo più “scientifico” di Platone, il Timeo, assistiamo così alla creazione di specie animali secondo un progressivo degrado a partire dall’uomo, come una sorta di teoria dell’evoluzione al contrario.E anche in quello che può essere chiamato “naturalismo” aristotelico, basato sull’equivalenza tra funzioni umane, animali e vegetali, l’uomo condivide con gli animali lo stesso tipo di sensorialità, immaginazione, memoria se non addirittura desiderio (la specie umana non è diversa in natura dalle specie animali), la differenza rimane in ciò che rende la superiorità dell’uomo: la facoltà di ragionamento (to logistikon) e la capacità di scegliere liberamente (to prairésis), o la capacità di optare per ciò che è logicamente preferibile.

È proprio tutto questo montaggio culturale, su cui poggia sia la rappresentazione che abbiamo di noi stessi sia la nostra capacità di organizzare le nostre relazioni con il mondo, che è stata letteralmente decostruita nella semplice “esibizione” di un’animalità restituita a se stessa.

La “visita” a piedi degli animali esce da un registro che ancora ci lascia in questa esteriorità dell’umanità all’animalità, anche se l’approccio regolato e rispettoso del bisonte europeo o dei cavalli di Przewalsky vale come “spettacolo” la cui intensità emotiva sembra avvertire che si tratta di qualcosa di diverso da una semplice zoografia senza griglie né gabbie, impressionante come può essere per se stesso. È un momento del tutto inaspettato, l’irruzione di una sorta di scenografia immanente ai vivi, che irromperà in questo dispositivo mentale dove l’animale è sempre visto attraverso l’uomo. All’imbrunire, scopriremo il vasto prato che occupa gran parte della tenuta, occupato (nel senso stretto del termine, vale a dire sia abitato che disposto ad un’attività che anima tutto) da quella che poi appare come l’intera popolazione animale del dominio, comprese le specie commensali discendenti dalla foresta e dalle montagne circostanti. Bisonti e cavalli, grandi cervi, cinghiali, volpi, ecc., tutti disposti, in ordine apparente, secondo un modo di occupazione e spazializzazione della struttura in cui l’animale e la pianta coesistono, esistono l’uno attraverso l’altro, secondo un registro enigmatico di cui dire che rappresenta un modo immemorabile di appartenenza a un mondo comune rimane una vaga approssimazione.

 

L’enigma sta nella natura del registro sensoriale in cui siamo immersi dalla semplice vista di ciò che viene così mostrato. Un misto di rapimento e stupore (questi due tipi di sensazioni si riferiscono allo stesso modo di essere allontanati da se stessi) che si esprime in un tipo di emotività troppo complessa, o troppo poco abituata, per essere chiaramente descritta, ma dove la sensazione di una profonda pace interiore sembra manifestare nello stesso accordo il pacifico e il dolore. Che lo spettacolo di un’animalità restituita a se stessa possa così ispirarci pacificamente una forma di accordo con se stessi è ancora concepibile. Ma rimane questa vaga sensazione di dolore, di logoramento quasi (come l’indefinibile rimpianto di aver commesso una colpa per la quale si dovrà pagare) che è difficile spiegare. E che sembra immergersi troppo nelle oscure profondità che coprono la coscienza pulita, per essere solo l’effetto un po’ ridicolo di una sensibilità in cui ci piace rifugiarci per non dover pensare.

Non ho una teoria disponibile da fornire qui. Tranne forse un’indicazione data in una riflessione fatta da uno degli attori della squadra del Monte Azzurro dicendo semplicemente: “questo spettacolo è quello che i nostri antenati avevano quotidianamente davanti agli occhi per decine di migliaia di anni. Questo è quello che vedevano ogni giorno! ». Come se, in questo momento di pienezza, apparisse nel vuoto il vuoto senza ricorso dei paesaggi che fanno il nostro mondo abituale oggi. Questo mondo in cui l’umanità si è verificata negando tutto ciò che non era, a cominciare dall’animale selvatico e dalla pianta (da sylvus, che si riferisce alla foresta, simbolo antagonista della civiltà), questo mondo è una cornice vuota, senza altro sfondo che i riflessi presuntuosi del nostro potere, vale a dire della nostra capacità di distruzione – la cui follia agnostica può essere misurata ricordando che è stimato in diversi milioni (!) il numero di lupi uccisi dall’uomo nell’emisfero settentrionale, dal Medioevo ai giorni nostri.

Un mondo il cui vuoto è struggente per noi solo per riferirsi a un altro vuoto per noi più profondo, a un’assenza in noi, a una mancanza. Quella di questa animalità da cui la nostra umanità si è separata circa 30.000 anni fa, la nostra parte animale, il nostro “divenire-animale” (G. Deleuze) presente in noi nel modo dell’assenza. Ci sarebbero senza dubbio molti da obiettare a tale idea. Ma mi sembra difficile non considerare che gran parte della “barbarie” che produciamo nel nostro rapporto con il mondo (distruzione consumistica), ferocia anche dell’uomo contro l’uomo (guerra come forma universale di violenza) e contro se stesso (follia), trova un’origine abissale in questo atto inaugurale con cui l’umanità si è insediata in se stessa rifiutando da sé la parte di animalità da cui proviene. Quando una forza è tagliata fuori da ciò che può, dice Nietzsche, si rivolge contro se stessa per agire per il proprio annientamento. Gli uomini preferiscono non volere nulla piuttosto che non volere nulla, Nietzsche chiama questa inversione dei valori “nichilismo”, o volontà di nulla.

Il soggiorno nella riserva del Monte Azzurro lascia aperta a tutti la possibilità di vivere l’esperienza propriamente “sensazionale” di un ritmo di vita, al crocevia del “vivente” (nel senso di organizzazione della materia) e del “vissuto” (nel senso di esperienza degli esseri umani), per il quale il nichilismo non sarebbe inevitabile.

 

Jacques Deschamps (Institut Desanti, ENS de LYON)


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